DALLE CENERI – Tahar Ben Jelloun

In quel periodo avevamo l’abitudine di intrufolarci dentro case in costruzione per giocare. Ognuno prendeva una stanza e nella stanza ci potevi mettere, costruire quello che volevi. Avevamo intorno ai sette anni e un’altra stupida abitudine: scrivere il nostro nome sui muri adiacenti alla porta inesistente delle nostre finte camere. Troppo furbi. Questa dichiarata appropriazione abusiva, socialista nei suoi intenti urbanistici, ci metteva giustamente nei guai: spesso arrivava a casa nostra qualcuno che si lamentava del casino che lasciavamo nelle loro proprietà. La nostra firma era anche la nostra condanna. Funziona così per gli assassini e i bambini stupidi. Ma il punto è un altro. Fu in una di quelle case che trovai un foglio con su scritto a penna un articolo giornalistico che parlava della Guerra del Golfo. Era la prima volta che ne sentivo parlare. Ero estasiato da quella scoperta. Mi sentivo il custode di quelle parole. Non ne feci voce con nessuno. Era il mio tesoro. Poi passarono gli anni e col tempo compresi che sicuramente era un semplice tema scritto da qualche alunno o un testo ricopiato da qualche giornale. Oppure no? Forse davvero era un articolo scritto d’urgenza da un reporter sotto bombardamento e giunto chissà come in un piccolo paese della costa Jonica, dentro una casa, in una sua stanza, solo per me? Non lo so. Quello di cui sono certo è che col tempo ho compreso cosa sia stata la Guerra del Golfo, prima e seconda. Ciò che mi ha riportato alla mente quel ricordo è stato il libro dello scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun, intitolato “Dalle ceneri” e pubblicato dalla casa editrice Il Melangolo. È un poema scritto pochi mesi dopo la fine della prima Guerra del Golfo, tra febbraio e aprile 1991. Come tutti noi sappiamo, quest’ultima è stato un conflitto che ha visto l’Iraq di Saddam Hussein invadere e annettere il Kuwait per le sue numerose riserve di petrolio. Viene anche ricordata come la prima guerra trasmessa in televisione, esattamente dalla notte del diciassette gennaio 1991 quando l’aviazione americana – a guida di una coalizione di trentacinque stati sotto l’egida dell’ONU – iniziò a bombardare l’esercito iracheno. La guerra durò poche settimane. E in quel poco tempo furono compiute più di centomila missioni e vennero sganciate quasi centomila tonnellate di bombe. L’esercito e il territorio e molti civili iracheni furono praticamente distrutti e uccisi nel corso della campagna aerea. Negli ultimi giorni (cento ore) prima della conclusione, avvenne una campagna militare via terra sia in Iraq che in Kuwait che portò a una resa in massa dell’esercito iracheno. Questi, per ordine del dittatore Hussein, rientrando in Iraq, misero fuoco a tutti i pozzi di petrolio, una misura devastante per l’ambiente e per la salute di tutti i cittadini del Kuwait. Quest’evento molti di noi lo hanno conosciuto principalmente per le foto in bianco e nero scattate dal grande fotoreporter Sebastiao Salgado. Il ventotto febbraio 1991 la guerra terminò. Il poema di Jelloun è un dialogo con i morti, soldati e civili, sterminati dalle bombe cadute dal cielo, sganciate dalla coalizione occidentale. Come afferma nell’introduzione, queste parole servono per dare dignità a quei corpi senza nome, gettati nell’oblio della Storia, assenti perché “il mondo dei potenti – gli Stati Uniti e i loro alleati – hanno preso l’abitudine di lavarsi le mani e di tranquillizzarsi la coscienza dopo aver provocato morti e distruzioni”. La poesia di Jelloun è un cammino che percorre la carneficina e il dolore dell’assenza prematura. La terra diventa un cimitero in movimento, dove solo il sangue irriga e il silenzio governa. Ci sono passaggi davvero intensi: la metafora diventa l’unica arma per difendersi dalle barbarie purulente di questa realtà. Quindi Bagdad non ha più un ventre / si è aperta le vene / per un popolo che ha fame. Quindi nessuna mano è venuta a posarsi / sulla fronte di quel ragazzo / non è stata scottata dal sole ma dal gas. / Hanno coperto due villaggi con una zanzariera di morte. Quindi quando si alzerà il vento quelle ceneri / si andranno a posare sugli occhi dei vivi. / E quelli senza saperne niente / cammineranno trionfanti con un po’ di morte / sul viso. Credo che ognuno di noi cammini nel mondo con un po’ di cenere sul volto. Non siamo persone attente né ce ne frega molto delle disgrazie altrui, anche se la complicità sta già nel fatto di girare lo sguardo altrove. Io quel foglio non so dove lo abbia messo; sicuramente lo avrò perso. Possibile che sia finito in mano a qualche altro bambino. Sarebbe giusto. Ed è giusto concludere dicendo che la poesia contemporanea non sta svolgendo il ruolo richiesto. Non vado oltre. Non ci vuole molto a capirlo guardandosi intorno. Ed è quindi giusto terminare con un altro frammento ripreso dall’introduzione al poema, che spiega perché Jelloun abbia “dovuto” utilizzare il mezzo poetico per urlare tutto il suo tormento e la sua indignazione. Il significato della poesia, soprattutto in tempi sempre più schifosi, banali e violenti come i nostri, che in fin dei conti sono quelli di ieri e presto domani.

“Una volta che si è stesa una coperta di sabbia e di cenere su migliaia di corpi anonimi, si coltiva l’oblio. È allora che la poesia si solleva. Per necessità. Diventa parola urgente del disordine in cui la dignità dell’essere viene calpestata. […] Tra il silenzio mortificato e il balbettio disperato, la poesia si intestardisce a dire. Il poeta grida o sussurra: sa che tacere potrebbe sembrare un delitto, un crimine.”

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