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.Natura e narrazione e mercurio in mare.

C’è questa natura contaminata che vuol’esser raccontata. La sua narrazione nasce (dal greco physis) da una congiunzione perfetta tra sostantivi e aggettivi, in una descrizione complessa e completa, l’insieme di tutta la materia vivente, dove il verbo si riduce alla mera rappresentanza di colei che si rigenera senza farmaci, mutando per via delle conseguenze nefaste del mercurio in mare, un esempio, continuamente e perpetuamente indifferente a ciò che porterà – e cosa nuova nascerà. Aristotele stabiliva che “vivere secondo natura è vivere secondo virtù”. E questa visione la si può riscontrare nei filari di ulivi distesi sui cigli delle strade e gli uomini a distribuire le reti. Ci possiamo comparare a un melograno che sorge ruvido e spelacchiato, quasi a domandarti quale intemperie lo hanno devastato, e meravigliarsi dei suoi fiori rossi a campana e di quel frutto così tondo e così ricco di sostanza. Camminare in riva al mare e incontrare la montagna dietro un nespolo. Vedere il cielo terso solcato da falchi e civette piccole come la luna vista da quaggiù. Ecco: la natura sa darci questa: la parola nasce da ciò che osserviamo. Goethe affermava “[…]Essa ha pensato e tramato incessantemente; ma non come un uomo bensì come natura… Non ha linguaggio né parole ma crea lingue e cuori attraverso i quali parla e sente”. Noi viviamo in essa e in essa troviamo l’espressione, il nostro sostegno vitale e la certezza che noi potremmo, perennemente, in un ciclo e riciclo continuo, sopravvivere. Può sembrare una semplice costatazione. Effettivamente lo è, ma la narrazione si complica di ostacoli e strafottenza. Non tutti percepiscono la poesia del luogo; il coinvolgersi; l’eleganza del suo comportamento. Quindi cominciamo a parlare della merda. La merda non fa rima con nulla di eccezionale. La merda può uscire dalla bocca o dalle azioni che ogni persona compie nell’arco di una giornata, mesi, anni e secoli. Alcune volte le due cose nascono contemporaneamente, ed è uno spettacolo fenomenale e distruttivo. Abbiamo la merda in senso letterale: i tubi di scarico e la fogna direttamente in mare, principalmente a mezzogiorno, mentre fai il morto sul riflesso lucente delle onde. Oppure la merda astratta: quella dei rifiuti tossici nascosti sotto campi di frutta e pomodori. Poi c’è la merda cittadina: il degrado degl’ecomostri, delle lamiere di amianto, della spazzatura gettata ovunque, a casaccio. Come non parlare della merda acquifera: “si prega ai cittadini di non utilizzare l’acqua del rubinetto per scopi alimentari per via di un alto livello di arsenico e composti altamente tossici riscontrati nelle falde locali.” C’è la merda dei boschi: incendi per scontri e assicurazioni amiche, o il taglio indisturbato di secoli e secoli di querce, abeti, castagni. Infine abbiamo la merda regale: noi, e il nostro esser vittima e carnefice di tutta questa defecazione a scopo di lucro e malvagità. La natura non può competere con i nostri capricci, principalmente perché la natura è indifferente al nostro giudizio e catastrofismo oculato senza vero scopo utilitario. Se ci pensiamo: siamo su questa terra per un motivo non ben precisato. Non possiamo riconoscere in noi il principio, la risposta che decifra la domanda. Noi non siamo il vento che trasporta i semi e inventa un nuovo microcosmo. Noi non siamo l’acqua che disseta né la lava del vulcano che riscalda. La possiamo riprodurre, ma siamo solo una copia. È eccezionale il suo livello di autodeterminazione e autoproduzione. Ha dei pistoni fenomenali; una tenuta di strada impareggiabile. Per non parlare della carrozzeria: un design che, davanti ad essa, solo la bocca aperta per lo stupore può descriverlo. Eppure, è delicata esattamente come il nostro corpo. Assorbe, assorbe, cova, cova e improvvisamente implode. E piange. Sicuramente piange. Ed è qui che parliamo di poesia e narrazione. Raccontare la verità della ferita che sanguina. Sentirsi partecipi di un linguaggio universale. Coinvolgere il pubblico che non ha più tempo d’ascoltare. Saper parlare e, come scriveva Calogero, “esser lo stesso per tutti i continenti”. Penso che ci siamo allontanati, allontanati sia dalla merda che dallo splendore e che ci siamo rinchiusi in casa a parlare con uno specchio, rendendoci interessanti solo a noi stessi. Forse dovremmo capire che siamo materia sola, che si estingue. Ognuno di noi è un derivato o un portatore d’estinzione. Vale la pena capire che ogni nostra azione è un riflesso: colpisce l’ambiente circostante, l’antropologia e la psicologia del luogo. Stiamo cementificando pure la parola. Si chiude il linguaggio, quasi fosse un’offesa esprimere la propria metafora. Così restano solo delle tristi carte giudiziarie.