Lui parla sempre del mare. Dice che il mare l’ha cresciuto e forgiato, rendendolo insensibile al rotolìo del mondo e il suo delirio inconcludente. Dice che stare per mare lo aiuta a digerire meglio lo scempio compiuto sulla terra. Almeno fino a qualche tempo fa. Ora dice che non c’è più alcuna differenza: ha guardato la mano affondare e lui ha provato, ha spinto il suo corpo oltre il limite e ha visto altre cento mani affondare. Ora non vuole ricordare. Passa ad altro. Dice che una volta ha visto un sottomarino riaffiorare dalle acque limpide. Per poco non ribaltava la sua piccola imbarcazione. Quell’uomo uscito dal portello gli aveva chiesto l’ora esatta. Lui non aveva orologi dietro. Diceva che il tempo genera ansie inutili e lui non voleva correre, preferiva dare spazio al cielo. In fin dei conti non ha nessuno che lo aspetta. La luna gli da la compagnia che si merita. Lo disse anche all’uomo uscito dal sottomarino. Gli diede ragione e lo salutò. Dice che in mare non si è mai soli. Manca la parola, ma i pensieri e i gabbiani possono essere buoni amici. Non mancano mai, principalmente quando si tirano le reti o quando il sole tramonta nell’immensità del niente che lo avvolge, lì, in mare. Non teme le tempeste. O, almeno, non le teme da quando ha incontrato una balena tra quelle ciclopiche onde. Ha visto il suo occhio destro e la sua grandezza e fragilità. Aveva sentito l’impulso di venirne divorato. In quegl’istanti burrascosi avrebbe voluto soggiornare in quel corpo così lucido e così antico. Immaginava le stanze lussuose, i camerieri in doppio petto, tavolate di pesce e birra. Sì, questo è il desiderio degl’uomini, disse. Ma lui non è più un uomo. Ormai lui è molto più simile a quel mammifero: solitario e indifferente. E sono entrambi sentimenti ingombranti. Troppo stupidi per alcuni, troppo violenti per altri. Ma il mare e la pesca sono violenza e omicidio. Quando i pesci arrivano a bordo, sono ancora vivi: bisogna decapitarli, sventrarli, eviscerarli, lanciarli nella stiva. Senza tregua. Attorniati dal sangue. Non per gli esseri umani. Dice che i corpi sono marci, alcuni già sventrati e corrosi dal sale. Non sempre interi: capitano braccia, gambe; pezzi che non centrano uno con l’altro. Dice che il mare non fa distinzioni, divora ogni cosa senza speranze o divertimento. I suoi occhi sono rivolti verso le tenebre, la luce del sole serve solo per riscaldare i natanti. Dice che mai un’offesa così grande era stata recata. Lasciare morire non è guerra o pirateria, ma delitto con senso di causa e infamia. Da lontano ogni cosa non ha odore, né le urla o la madre: la disperazione, i soccorsi, le bestemmie, le spinte, il freddo, il gommone, altre urla, altra disperazione, altri soccorsi, altre bestemmie, la calma, i superstiti, le tenebre e la morte. Dice che ormai lui è compare della morte. Che la morte è sorella del mare. Dice che non esiste nessuna difesa che possa sconfiggerla. Forse per questo è complice e moglie di coloro che impongono la Storia. Dice che la morte è utile solo se offre sazietà allo stomaco, il resto è torto e miseria. Sa di essere solo, tra le onde tortuose e la bellezza del nulla; sa che in questo luogo c’è solo fatica e rimpianti; sa che ormai questo azzurro invincibile è teatro di guerra e cimitero salino. Lui non può tirarsi indietro. Dice che le balene non lasciano mai soli i loro cuccioli, che si aggregano in branco quando c’è troppo cibo per uno solo. Dice che a volte è costretto a buttare il pescato, ma trattiene sempre i resti di chi ha provato e non è stato salvato. Lui era convinto che questo mare fosse il suo, che il mare lo avesse trasformato in un’onda impassibile e fulgida. Dice, invece, di aver scoperto di aver sbagliato tutti i calcoli, di non aver seguito quel corso di primo soccorso, di credere di essere invincibile e che esistesse solo un tipo di sangue. Dice che ora sa esattamente che ore sono. Deve misurare il tempo, tra lui e la morte.
[Dipinto di Paolo Romani, Notturno – Mareggiata]