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.Io sono Lev Jašin.

Eccomi di nuovo qua, a difendere i pali di questa porta tre metri per due. É pomeriggio inoltrato. Siamo ancora ai gironi. Simone scarta l’ultimo difensore, è poco fuori dall’aria di rigore. Fa finta di tirare. Involontariamente mi volto di spalle, allargando le gambe. Simone mi ha fregato. É quello che pensa. Tira. Le mie gambe aperte sono una prelibatezza troppo forte da evitare. Sono una calamita. Tira rasoterra, di piatto, cercando il tunnel, il goal. E la paro. Di spalle, metto le mani tra le gambe e blocco la palla. Simone corre verso di me e mi spinge a terra. Forse mi dà pure un cazzotto. <<Ma facci segnare almeno un goal!>>. Vincemmo sette a zero. Il Falco col berretto aveva adempiuto al proprio dovere.

Il soprannome Falco non mi era stato affibbiato soltanto per via delle parate nelle partite di calcetto – c’era chi diceva che <<B. ha degli artigli al posto delle dita!>>; artigli che afferravano la preda, la rotonda palla. Non soltanto. In principio, questo pseudonimo, nasceva dai tornei di carte, briscola e tressette. Avevo la capacità matematica di sapere, dopo poche mani, quali carte avevano i nostri avversari. I tornei si giocano in coppia e, per esempio, a tressette, tutte le carte vengo smistate in una sola mano. In base a smorfie tattiche e carte scartate, dopo due giri sapevo esattamente cosa avessero i miei sfidanti e il mio compagno. Era come se io riuscissi a vedere ciò che avevano in mano. Come vedere la preda a svariati metri d’altezza. Per questo, e in quelle circostanze, mi era stato dato il soprannome Occhi di Falco.

Il Falco Naumanni, insieme al Falco Pecchiaiolo Occidentale e al Falco Pellegrino, è un rapace molto comune in Calabria. Detto Grillaio per via dei suoi versi articolati in krii stridenti, simili al canto di un grillo, è un piccolo falco migratore che, con apertura alare, può sfiorare massimo i settanta centimetri. Effettivamente, da noi è conosciuto col nome di falchetto. Sarà che noi chiamiamo falco o falchetto tutto ciò che è più grande di una rondine, quindi per distinguerlo è più sicuro affidarsi alle rigide descrizioni degli ornitologi: il Grillaio è un rapace molto simile al Gheppio, ma a differenza di quest’ultimo ha la parte superiore del corpo marrone chiaro, le parti superiori più esterne delle ali scure, un cappuccio azzurro, la coda grigia dal bordo nero e le parti inferiori chiare. Troppo complicato: per me restano marroni e con la testa azzurra – azzurro di Savoia direi. Nella mia zona è molto facile vedere coppie o piccoli stormi di falchetti girovagare per il cielo. Principalmente verso la montagna. Me ne ricordo sempre un paio su di un palo della corrente elettrica, vicino al Mulino di Enzo, poco dopo il ponte sopra Amusa, nella contrada di Strano dove abitò mia madre da bambina fino al matrimonio con mio padre. Frequentavo spesso quella montagna perché, nella villetta dove i miei nonni vissero fino al fuoco del 1983, ci avevo fatto la sala prove e lo studio di registrazione del mio gruppo musicale. Era normale affezionarsi. Erano come dei custodi, fermi lì ad assicurarsi che tu ci passassi e tornassi e non ti accadesse niente mentre attraversi quel maledetto ponte largo quanto una 500 del ‘56, con ringhiere celeste smacchiato, fragili come i canneti sotto l’arsura trasportata dalla tramontana, in bilico come sul cornicione del terzo piano di una qualsiasi casa. C’è stato un periodo in cui questo rapace era scomparso dal nostro territorio. Oltre al bracconaggio, comunque sempre presente (uno dei più consistenti, nel 2012, con oltre cento falchetti uccisi), ad allontanarli è stato il periodo dei continui incendi che hanno reso polvere nera le montagne dagl’anni ottanta fino al duemila. Ogni estate decine e decine di incendi, tutti di matrice dolosa e di dimensioni sempre più grandi e tremendi, ardevano anche il cielo – per vendetta contro un vicino noioso, per invidia, per assicurazioni varie, per puro divertimento o gestiti dalla forestale. Ma qualsiasi scusa scegliate: è stato crudele. Molta fauna è andata scomparendo. Lupi, serpenti, civette, uccelli migratori vari. Per non parlare di ulivi secolari e alberi di noci e castagni altissimi e reduci da infinite storie popolari e cambiamenti etnografici. É in uno di quei tremendi incendi che mio nonno ha conosciuto la depressione e, in seguito, la demenza senile per salvare la casa. Ed è nell’ultimo devastante incendio dell’98 che mio padre e i suoi fratelli hanno salvato la Signora Rosa da morte certa. <<Dassatimi cà! Esti a casa mia! Chistu esti tuttu chidu chi ndaiu!>>, così gridava. Il falco e altri animali come l’aquila e i gufi sono tornati a ripopolare terra e cielo poco dopo il duemila. Dopo anni di tranquillità, le montagne hanno ripreso forza e vigore. Anche se il verde, in alcuni tratti, stenta a riemergere (ma questo non comporta la rinascita e la ricomparsa di cavallette, coleotteri, farfalle, grillo-talpa e insetti vari utili per il sostentamento del falchetto e delle piante e arbusti del territorio), e forse per via di meno soldi o per la morte di qualche vicino scomodo o per via del cambiamento climatico che porta le estati a combinarsi tra periodi di pioggia e freddo e periodi di caldo intenso, gli incendi sono diminuiti lasciando libero il passaggio e la colonizzazione del piccolo Grillaio marrone.

In quegl’anni di savonaroliani ambientali, ero un bambino abbastanza tranquillo con una salute abbastanza precaria. All’età di cinque anni mi sono chiuso dentro una sedia sdraio dividendomi la clavicola destra. A otto sono caduto dalla bicicletta facendo diversi metri con la faccia, scorticandomi la pelle dal mento fino al naso. A dieci mi si è bloccata la schiena per due settimane senza motivo. E saltando tante altre cose e acciacchi dell’età, si arriva ai quattordici con le coliche renali e la fine del mio percorso sportivo a livello agonistico. Sì: le coliche renali sono cose che solitamente arrivano dopo i quaranta, ma a me è stato riservato un trattamento speciale. Ed è stato con quella botta di dolori e acqua Fiuggi che ho perso il mio fisico atletico, perdendo una quindicina di chili in breve tempo mai più ripreso – alla faccia di diete miracolose e culi scultorei a botte di liposuzioni varie. Inoltre avevo perso la possibilità di sfruttare il colpo di reni, utile per saltare in aria dopo una respinta o una presa al volo nella mischia di un calcio d’angolo. Io ho sempre fatto il portiere e ho sempre portato un berretto. Ho le foto a testimoniarlo. Lo portavo anche fuori dal campo. Ho iniziato a giocare a calcetto con gli amici e a livello agonistico, prima del calcio a undici, ho cominciato come portiere di pallamano. Nei tornei Topolino, nelle manifestazioni nazionali, ho vinto diversi premi e medaglie. Era ed è il mio sport preferito. A calcetto, come a pallamano, ero un portiere abbastanza bravo e, come ben si sa, il portiere è uno di quei ruoli bistrattati da tutti: poco dinamico e poco soddisfacente perché non fai goal, non dribbli l’avversario, non fai cross, non indossi la fascia di capitano. Sei solo uno che sta lì a guardarsi la partita. Erano regole mentali che non valevano per me. Io ero capitano della squadra, io dirigevo il gioco, io segnavo goal e tiravo i rigori. Ero parte di quella stretta generazione di portieri che vedeva il suo ruolo a tutto tondo. Che non si fermava alla linea bianca dell’area, ma che usciva e tentava l’incrocio dei pali. Ero quel tipo di portiere che nei calci d’angolo correva a colpire di testa una palla morbida calciata dal tuo compagno. Ero un pazzo che andava avanti e indietro, su e giù dal campo di gioco. Mi divertivo. Involontariamente, cercavo di perfezionare il ruolo. Nel mio piccolo tentavo nuove visioni di gioco, sia con i piedi che con le mani. E le mie mani erano come gli artigli di un falco. Andavano sul pallone come se fosse una preda da catturare. Ci mettevo tutto me stesso. Era la sola cosa in cui credevo e nel quale ogni mio problema si risolveva. Era la sola speranza che ci si poteva augurare e sognare in un posto come il sud dove librerie, cinema, musei erano leggende raccontate dagli amici del nord. Il calcetto era la nostra giornata lavorativa. Si stava lì minimo otto ore e gli straordinari erano ben accetti. Un’offesa non restare. <<Dai mamma! Ancora un po’!>>.

Lev Jašin l’ho conosciuto verso i dieci anni. Era l’ultima volta che avrei rivisto zio Santo della Germania. Se ne andò via poco dopo per dei tumori sparsi per il corpo, pacchi regalo della fabbrica e delle miriadi di sigarette che fumava. Zio Santo era una di quelle persone veramente belle e cariche di sentimento e vita che paiono immortali. Se non ricordo male, con la famiglia, venivano giù una volta ogni due anni e portavano troppa roba assurda: wurstel lunghi un metro, birre gigantesche, cioccolata dai mille gusti, caramelle colorate e vestiti bizzarri. E per tutti c’era una sorpresa. Quella volta mi era toccato affrontare una sfida con la mia capacità di concepire le dimensioni di un oggetto. Mi avevano portato un camion grande come un comodino sdraiato con dentro altri camion, che all’interno contenevano altre macchine e moto. Una matriosca a forma di camion gigante. Ed io ho sempre odiato le macchine e i loro derivati. Avevo il vizio di lanciarli dal balcone della casa di nonno Benny insieme agli zoccoli di zio Sandro. Ma quella volta fui affascinato da cotanta grandezza. Fu un momento magico: mi vedevo sfrecciare per le vie di Caulonia dentro a quel meraviglioso autoveicolo facendo impazzire tutti gli autisti di camioncini e le loro vogliose consorti. Ero carne fresca allo sbaraglio. Ma durò poco tutto questo testosterone da camionista. Mi ricordo solo quel momento di stupore iniziale. Dove sia finita quella matriosca meccanica non lo saprei dire con certezza. Sicuramente fu barattata per delle figurine o una maglietta da calciatore.

E qui apro una piccola parentesi relativamente importante. Ci fu un breve periodo della mia infanzia, poco dopo la smania delle figurine Panini, dove un po’ tutti ci trasformammo in collezionisti e ricercatori di magliette di calciatori famosi. Era come un’ossessione. Si partiva per la gita e si tornava a casa con decine di magliette del Milan o dell’Inter o del Parma. Si andava dai parenti fuori regione e si rientrava pieni di maglie della Fiorentina, Juventus, Barcellona, addirittura del Senegal. E la cosa incredibile è, che ovunque si andava, c’erano sempre decine di bancarelle che vendevano magliette di qualunque calciatore. Salas, Zamerano, Zola, Edmundo, Peruzzi, Del Piero, Rui Costa, Boban. Quella a cui tenevo di più era quella di Toldo. Il mio idolo. Fino all’arrivo di Jašin. Chiuse parentesi relativamente importanti.

Quell’anno, insieme a zio Santo e sua moglie, erano venute le figlie con i rispettivi compagni. Uno di questi era un brasiliano appassionato di calcio. Noi lo chiamavamo Vincenzo. Anche se non parlavamo la stessa lingua, avevamo subito fatto amicizia. Essendo che io ho sempre giocato in squadra con gente di fuori – i miei compagni dei tornei estivi erano torinesi, milanesi, baresi -, fu normale per me diventare il Taffarel della situazione (eravamo nel 1998) per la famosa sfida, nel cortile di casa di nonno, tra Italia e Brasile. Penso che non vinse nessuno. Forse finì pure a rissa. Ma fu in quel frangente, dopo una parata, che Vincenzo si girò verso di me e disse qualcosa accompagnata dalla parola Jašin. Era la prima volta che sentivo quel nome. Inizialmente pensai che mi stesse dicendo bravo o complimenti, ma fu subito dopo la partita che mi mostrò una figurina cartonata con l’immagine di un signore vestito di nero mentre si tuffava per una parata sul lato destro della porta. Il suo volto aveva la bocca aperta, tutti i muscoli erano in tensione. La palla era già oltre i guanti. Sembrava l’avesse respinta. Sicuramente era andata così; troppo perfetta quella posizione plastica. E lì a terra si vedeva un berretto. Forse di qualche spettatore cattivo che voleva infastidirlo. Solo più avanti scoprì che era il suo. Per il resto era tutto scritto in tedesco. E solo la parola Jašin era comprensibile. Quindi io ero quell’uomo vestito di nero. Ne ero affascinato. Ne volevo sapere di più.

Lev Jašin è stato l’unico portiere al mondo a vincere il Pallone d’Oro, nell’edizione del 1963, a 34 anni. Nacque il 22/10/1929 a Mosca da madre e padre agricoltori, prima della rivoluzione, e, successivamente, addetti meccanici nella fabbrica industriale n°25 in via Milionnaja, nella quale si trovavano anche le case abitate dalle famiglie operaie. Nel maggio del 1929, poco prima della sua nascita, il V° Congresso dei Soviet dell’URSS aveva ufficialmente approvato il Primo Piano Quinquennale che doveva proiettare il grande Stato verso un radioso futuro. Oltre alla modernizzazione industriale e sociale e ai gulag in Siberia dove venivano spediti a morire gli oppositori del Partito, si cercò in tutti i modi, con un programma di istruzione e una propaganda martellante, di spingere la popolazione verso un’idea di collettivismo associato all’alfabetizzazione di massa e ad uno stile di vita sano e dinamico, di cui la pratica sportiva era una componente importante. E di rilievo fu l’importazione dell’educazione fisica sia nelle scuole che nelle fabbriche da parte del Komsomol (l’organizzazione della gioventù comunista). L’organo di stampa della Komsomol, il “Komsomol’skaja pravda”, in un suo articolo, affermava: Ogni lavoratore deve avere muscoli forti e vista acuta! Proponiamo di stabilire a livello pansovietico delle prove per l’ottenimento del distintivo “Pronto al lavoro e alla difesa dell’URSS”. Questi erano dei riconoscimenti statali che offrivano dei privilegi come una maggiore possibilità di entrare nelle scuole militari o per l’arruolamento in unità d’élite. Per ricevere questi premi bisognava vincere delle gare sportive. Con questa scusa si spingeva il lavoratore ad occuparsi anche del suo corpo e del suo esercizio fisico. Costantemente. Tutto ciò venne stabilito per generare uomini sempre pronti alla battaglia e al dovere, sempre precisi a seguire regole e allenatori (Sergenti) pronti a mandarli sul campo (di battaglia). Fu in quel periodo che venne introdotto come sport nazionale il calcio. La Grande Enciclopedia Sovietica conferma che: Le qualità psicofisiche sviluppate dal calcio, importanti sia nel lavoro in tempo di pace sia per il soldato, determinano il valore di questo gioco come strumento di educazione fisica nel sistema di lavoro con gli adulti dai 18 ai 35-38 anni, svolto all’interno dei collettivi civili e dell’Armata Rossa. E l’inaugurazione del nuovo stadio della Dinamo Mosca (la squadra dell’esercito) fu la coronazione di questo evento: ogni partita era vista da oltre quarantacinque mila spettatori, composti anche da donne e bambini. Tutto quest’amore per il calcio fu fagocitato anche dall’arte. In quel periodo pittori famosi come Dejneka cominciarono, nei loro dipinti, a rappresentare calciatori in procinto di tirare o portieri nell’atto di una parata. Importanti furono anche gli spettacoli teatrali e cinematografici; come “l’Età dell’oro”, scritto da Kurdjumov e musicato da Sostakovic, snobbato subito dalla critica per il suo taglio Occidentale. Il Partito-Stato impose categoricamente a scrittori, registi, musicisti di creare prodotti non solo dal contenuto ottimistico e celebrativo, ma dalle forme consuete, facili da comprendere e apprezzabili anche dalle persone meno preparate. Questo portò il calcio ad essere uno dei temi principali da esporre al pubblico per via della sua capacità d’attrazione e riferimento per giovani e adulti. Divenne lo strumento per educare la coscienza collettiva. Fu così che nel 1937 uscì nelle sale il film “Vratar’” (Il portiere), tratto dall’opera dello scrittore sportivo Lev Kassil, “Vratar’ respublicki” (Il portiere della repubblica). Diretto dal regista Timošenko, accolto bene dal pubblico e dalla critica staliniana, era un film molto semplice: un portiere che fa parate miracolose per difendere la sua nazione dai goal del nemico occidentale. Il portiere, per via di questo film e altri testi e opere artistiche, divenne la figura portante di questa propaganda sportiva. Il verso centrale della Sportivnyj mars (Marcia sportiva), pezzo forte del film, non potrebbe essere più esplicito: <<Ehi portiere, preparati alla battaglia! / Sei di guardia alla porta! / Immagina che dietro di te / corre la linea del confine!>>. Con l’inizio della Seconda Guerra Mondiale e l’arrivo dei nazisti sul territorio russo, tutti i civili vennero spostasti verso l’interno del paese. Insieme a loro furono trasferite pure le fabbriche così da poter continuare a rifornire i soldati in guerra. Jašin e famiglia furono traferiti a Simbirsk, città natale di Lenin. Fu lì che Jašin, dopo la quinta classe, prese a lavorare in fabbrica. Il cibo scarseggiava e servivano due mani in più per portare a casa altro guadagno utile per andare avanti. Finita la guerra, rientrano a Mosca, in un nuovo quartiere. Ed è qui che comincia a giocare a calcio, nel campo Ottobre Rosso vicino alla fabbrica. É da sapere che, all’epoca, in Russia, se non lo svolgevi a livello professionale, il calcio era un gioco estivo. In inverno si giocava forzatamente all’Hockey russo (cioè con la pallina invece del disco per differenziarlo da quello canadese, quindi Occidentale). Un giorno Jašin, senza un motivo valido, cadde in una specie di depressione che lo portò lontano dal campo da gioco e dal lavoro. Così rischiava di passare per assenteista e rischiare una condanna penale. Fu in quel momento che un suo amico gli consigliò di arruolarsi. Inizialmente fu molto faticoso per Jašin, ma tutto cambiò ed ebbe inizio quando un comandante all’appello serale, ordinò: <<Calciatori, un passo avanti!>>. Jašin prese a difendere la porta della sua unità militare. E, nel 1949, all’età di vent’anni entrò nella squadra giovanile della Dinamo, nella quale ci giocherà per tutta la sua carriera sportiva. Tutto ciò avvenne grazie all’allenatore di Hockey Cernysev, che lo volle con lui nella squadra come portiere. Nel frattempo, nel calcio stava andando male. Dopo alcune partite deludenti fu rispedito nelle riserve. Nell’Hockey, invece, migliorava. Vinse diversi premi. Ma doveva scegliere. Dopo aver finito il campionato di calcio riserve con ottime prestazioni, parando addirittura diciotto rigori, nella primavera del 1953 fu richiamato nella prima squadra. Divenne titolare. Sempre in quell’anno, la Dinamo vinse la Coppa dell’Unione Sovietica. Nell’anno successivo conquistarono, invece, il primo posto nel campionato. Fu con queste gratificazioni che riuscì ad abbandonare definitivamente l’Hockey. Il 1954 è il suo debutto in Nazionale. La sua prima partita ufficiale fu contro la Svezia, vinta 7 a 0. La seconda partita avvenne contro l’Ungheria di Grosics, Puskas, Kocsis; una delle squadre più forti del mondo in quel periodo calcistico. La partita finì 1 a 1 e il merito fu principalmente dei due portieri, Grosics e Jašin. Fu proprio una sua parata a ispirare questo piccolo ricordo allo scrittore sportivo Kassil’: <<A pochi passi dalla nostra porta, gli attaccanti ungheresi si scambiano la palla di testa senza lasciarle toccare il manto erboso, in un’azione piena di pericolosa eleganza. Solo Jašin, con un balzo di straordinaria bellezza, che ricorda il volo di un trapezista, salva la nostra porta da un goal che pareva ormai inevitabile.>> Nel 1955 fu la prima volta della Germania in territorio russo. Fu un evento eccezionale. Impensabile fino a pochi anni addietro. E come pochi anni prima tornò la tensione dello Stato sulla squadra in procinto di sfidare coloro che rappresentavano i nemici più acerrimi, di stampo nazista, e di cui non conoscevano neppure l’intera formazione o una tattica di gioco (non esistendo le televisioni e vista la censura verso tutto ciò che era esterno ai propri confini). <<E’ il vostro dovere!>>, diceva. Il paese, nel frattempo, era allibito da quei mille e cinquecento tedeschi (il numero massimo fatto entrare) sparsi per la capitale. Era la prima volta che vedevano qualcuno diverso da loro, scoprendo i volti di coloro che uccisero milioni di compatrioti. Ma tutto andò liscio, senza incidenti. E, anche se la pressione era alta, l’URSS riuscì a battere la Germania per 3 a 2; per la gioia dei centomila spettatori accorsi a vederli allo stadio della Dinamo. Quello stesso anno accadde una cosa triste per Jašin: venne espulso dal campo di gioco a causa di un fallo compiuto sull’avversario nella partita tra Dinamo e CSKA per la Coppa dell’Unione Sovietica. Jašin racconterà che fu un errore dell’arbitro. Ma questo errore costò la coppa alla Dinamo, delle scuse davanti alla giuria sportiva e un distico offensivo dei tifosi contro di lui: <<La coppa doveva essere nostra / ma ci ha tradito il compagno Jašin.>> Bisogna fare attenzione che in quel periodo, anche se Stalin era morto da tre anni, era molto semplice diventare nemico di qualcuno. Bastava un gesto, un errore minimo, per essere screditato e gettato in pasto alle autorità pronte a cancellarti dalla sfera pubblica. Più avanti ne vedremo un altro esempio. Nel 1956 l’Unione Sovietica partecipa ai giochi olimpici, durante i quali vincerà il suo primo oro e sarà l’inizio di un breve percorso di successi che la Russia non ritroverà più. Per farvi un esempio di ciò che avvenne affido la descrizione di quelle giornate al dottore personale di Jašin: <<Durante le partite non si risparmiava di certo, e io come medico posso affermarlo con cognizione di causa, più di chiunque altro. Vi racconto alcune situazioni che dimostrano il coraggio di Jašin. Il torneo olimpico di Melbourne ebbe un andamento per nulla facile per la nostra nazionale. Superammo la rappresentativa unificata delle due Germanie per 2-1 e con l’Indonesia pareggiamo 0-0 e avremmo potuto anche perdere sebbene Leva fosse rimasto del tutto inoperoso. I nostri tirarono in porta 67 volte ma non segnarono. Un altro portiere avrebbe potuto scaricare agevolmente tutta la colpa dell’insuccesso sugli attaccanti e consolarsi con il fatto che la sua porta era rimasta inviolata. Un altro portiere, non Jašin: lui soffrì tanto quella situazione che dopo la partita nello spogliatoio ebbe una crisi isterica tanto che dovetti fargli un’iniezione di calmanti. Per la ripetizione della partita fu schierato il secondo portiere, Rasinskij. Vincemmo 4-0, ma Rasinskij subì una grave lesione all’articolazione della spalla, dove la clavicola si unisce alla spalla. Nella semifinale contro i bulgari, vinta da noi sovietici, giocò Jašin e destino volle che subisse lo stesso identico infortunio! Immaginatevi la situazione: dobbiamo giocare la finale e nessuno dei nostri due portieri riesce ad alzare un braccio. Alla vigilia della partita il chirurgo Mironova fece una fasciatura molto rigida ad entrambi ma fino all’ultimo istante non si sapeva chi avrebbe difeso la nostra porta. Proprio qualche minuto prima che le squadre scendessero in campo Leva, con un tono che non ammetteva repliche, disse: <<Gioco io!>>. La finale fu vinta dai russi per 1 a 0, goal di Anatolij Il’in. Ma il protagonista ufficiale della gara, anche con un braccio dolorante, fu proprio Jašin. Ecco il ricordo del calciatore Valentin Ivanov: <<Dire che Jašin giocò bene, benissimo, splendidamente, sarebbe non dire nulla. Quella fu una delle più grandi partite del miglior portiere di un’intera epoca del calcio mondiale. Una squadra può essere grata al proprio portiere quando questi la trae d’impaccio in una o due situazioni disperate. Soltanto nella finale Jašin salvò la nostra porta dieci, forse quindici volte. Perdemmo il conto delle sue parate miracolose. Non sapevamo più che cosa fosse un tiro imparabile: palloni diretti negli angoli, bloccava o respingeva tutto. E lo faceva come se nulla fosse, come se si trattasse di ordinaria amministrazione.>>

Tutte queste cose le venni a sapere poco tempo fa, leggendo il libro di Curletto e Lupi, “Jašin. Vita di un portiere”, edito da Il Melangolo. Quando l’ho visto in libreria è stato come un colpo allo stomaco o la riapertura di una ferita. Non avevo mai preso in considerazione l’idea di leggere la biografia di un calciatore, ma non potevo compiere nessun’altro gesto: sono andato alla cassa, ho pagato e appena uscito ho iniziato a leggerlo. Quando conobbi per la prima volta la figura di Jašin, le uniche informazioni che riuscì a recuperare furono quelle di alcuni anziani che sostavano quotidianamente sulla panchina dinnanzi all’edicola di Alvino; con quei musoni tipici e il Corriere o la Gazzetta tra le mani. La loro descrizione fu esattamente questa: era alto, vinse il pallone d’oro, e mangiava bambini come tutti i comunisti.

Nel 1957, l’Unione Sovietica, partecipò per la prima volta ai mondiali. Questi si svolgevano in Svezia e, dopo la morte di Stalin nel 1953 e le aperture di Chruscev, fu semplice la partecipazione della squadra ai campionati internazionali. Questo certo non escludeva, ancora, una certa pressione da parte del Partito e della società russa. Le pre-selezioni andarono bene, ma tutto il resto no. Dopo aver passato i gironi con molta difficoltà (Jašin si superò parando pure un rigore agli austriaci), il mondiale finì quando si trovarono davanti la Svezia. Finì con un solo goal. E questo comportò l’uscita e il rientro senza sfarzi e complimenti in patria. L’anno successivo, grazie alla determinazione di Pierre Delaunay nel proseguire la volontà di Henri Delaunay, segretario della Federazione calcio francese e primo segretario della neonata UEFA, vennero realizzati i primi Campionati Europei. Su 33 squadre appartenenti alla UEFA ne parteciparono solo 17. E fu l’Unione Sovietica a predominare su tutte. In semifinale, prendendo in prestito le parole dell’inviato di “Sovetskij sport”, Lev Filatov, ecco cosa accadde contro la Cecoslovacchia: <<Bubnik, dalla destra, passa la palla a Bubernik che sta sopraggiungendo in corsa. Tira secco di prima intenzione e Jašin, lanciandosi verso l’angolo, blocca a terra, coprendo la palla con il corpo. È stato un tuffo davvero splendido. Ho visto i nostri giocatori fermarsi e applaudire il loro portiere. Per non dire dalle tribune!>> E questo calore da parte degli spettatori è descritto anche da Jašin, ma con un piccolo inconveniente: <<Alla fine della partita i passionali marsigliesi mi hanno portato fuori dal campo a braccia e uno di loro, come souvenir, si è preso il mio berretto ed è sparito. Devo aggiungere che quel berretto me lo avevano regalato degli amici in Cecoslovacchia nel 1953 in occasione di una tournée con la Dinamo. È un regalo a cui tengo molto. Non è semplicemente un copricapo ma una specie di talismano e me l’avevano portato via. Ho cominciato a gridare: <<Restituiscimi il berretto!>>. Ma nessuno mi ha dato retta. Allora mi sono fatto largo tra la folla e mi sono rivolto all’ufficiale della polizia che dirigeva la sicurezza dello stadio, spiegandogli che quel berretto era stato con me a Melbourne e in Svezia e non potevo veramente farne a meno. Il poliziotto scomparve ma dopo qualche minuto tornò tenendo in mano il mio prezioso berretto. Allungai la mano ma il poliziotto mi disse: <<No! Un souvenir!>> e indicò il distintivo della Federazione di calcio dell’URSS che avevo appuntato sulla maglia. Non mi restò che acconsentire. Quando perfezionammo lo scambio il poliziotto mi fece un largo sorriso e disse: <<La vostra squadra vincerà>>. E andò così. La finale fu, nuovamente, URSS contro Jugoslavia e finì 2 a 1 nei supplementari. L’Unione Sovietica era il primo campione dei primi Europei.

Anche per me il cappello era come un talismano. Non me lo toglievo mai. Faceva parte del mio corpo quanto i capelli o l’indice destro della mano. Mi serviva per puntare il pallone come Jigen quando prende la mira per sparare. Un colpo tra i guanti. Il fumo verso il cielo. Il corpo in volo sul fianco destro. La palla oltre. Fuori. Come quella foto cartonata di Jašin. Io.

1962. Mondiali in Cile, sarò breve: l’URSS andò malissimo, uscì subito dopo il girone perdendo contro i padroni di casa e tutta la colpa venne addossata a Jašin. Ripeto: anche se Stalin era morto, il Partito non amava fare figuracce fuori dai propri confini e serviva sempre un capro espiatorio. E chi meglio di un portiere che deve difendere i confini nazionali? Non essendoci televisori, i mondiali si seguivano via comunicati da parte dei giornalisti presenti in loco. Fu uno di questi a far partire una concatenazione di eventi tale da partorire minacce, ritorsioni, insulti, offese verso Leva. Tutte queste cose lo spinsero a una piccola depressione. Comprendendo la sua condizione psicologica, l’allenatore della Dinamo, lo dispensò addirittura dagli allenamenti. Jašin era un tipo molto gentile e calmo, ma era iperteso prima di ogni partita. Solo la pesca lo rilassava. Capitava che prima di una sfida, per tenerlo disteso e concentrato, lo portassero a pescare. Ed è ciò che avvenne in quell’anno di tensioni e offese. Ma fu solo una fase. Nel 1963 lo chiamarono a parare nella famosa sfida di Wembley, dove si svolse Inghilterra contro Resto del Mondo (vinta dai padroni di casa 2 a 1). Jašin fu inserito in formazione perché era il miglior portiere in circolazione e tutti erano a conoscenza di tale bravura. Fu in quella occasione che trovarono la scusa per potergli conferire il Pallone d’Oro. Queste furono le parole del competente telespettatore Mudrik: <<A Londra Lev mostrò la sua eccelsa classe. Ricordo tiri in porta da brevissima distanza di Bobby Charlton, Greaves e Paine, e Lev non li respinse, riuscì addirittura a bloccarli>>. Questo premio fece sì che anche i russi potessero finalmente riabilitare il loro idolo. Ci saranno ancora gli europei (persi in finale contro la Spagna del dittatore Franco e che il Partito non perdonerà mai alla squadra russa) nei quali è giusto ricordare queste parole di Sandro Mazzola, nella partita Italia contro Unione Sovietica, giocata a Roma e finita 1 a 0 per i russi, dove al ‘57esimo sbagliò il rigore del pareggio: <<Parò 86 rigori nella sua carriera. Come faceva? Io ho solo visto un’ombra nera che copriva tutta la porta ed ho sbagliato.>> Ci saranno ancora i mondiali in Inghilterra. Ci sarà l’addio quasi impensabile davanti ai calciatori stranieri, i suoi vecchi rivali, venuti da tutto il mondo a salutarlo. Poi ci saranno trasferte come ambasciatore, film, libri, leggende su di lui. Come la poesia di Evtusenko che riporto qui, intera, dove spiega la sua rivoluzione, il suo animo, la sua passione e l’amore che sempre lo circonderà.

 .Il portiere abbandona la porta.

È una rivoluzione nel calcio

il portiere abbandona la porta

e in questo nuovo e strano ruolo

avanza come un attaccante.

Lo stile di Jašin

è stata la ribellione del talento

quando fra il rumoreggiare stupito

con la grazia granitica del gigante

ha superato l’area del rigore.

Questo coraggio si imponeva

quando in lungo e in largo

i potenti del momento volevano fare

di tutto il paese

un’area di rigore.

Una ragnatela di linee tracciate col gesso

copriva il paese perché noi,

beccando come galline,

non osassimo saltare

infrangendo il divieto.

Soffiava,

gelosa del coraggio,

la boria falsamente tifosa:

portiere,

non mettere il naso fuori dall’area di rigore!

Poeta, non metterti in politica!

Ah, Lev Ivanyc,

Lev Ivanyc,

ci amano proprio,

perché noi

mettevamo il naso dove non potevamo

e facevamo Dio solo sa che cosa.

Perché anche nei tempi oscuri

di tutte quelle partite sporche e truccate

non si era estinta in Russia la razza

di chi usciva fuori dall’area di rigore.

La fonte dei tempi oscuri

le sabbie mobili.

Ma è un gesto eroico,

e non un peccato

vivere con onestà

e bontà

in mezzo ai ladri e agli incapaci.

Oh gioia

tirar fuori dalla mischia

gettandosi come in un gorgo,

il pallone,

che brucia i guanti,

come un fulmine a sfera!

Ah Lev Ivanyc,

Lev Ivanyc,

e se all’improvviso,

sfiorando il ciuffo grigio,

il pallone,

seducente e ingannevole,

volerà oltre lo steccato?

Come un amico

un amico bistrattato,

si stringerà alla guancia

non rasata,

sussurrerà che lei non ha vissuto invano.

Anche i palloni hanno le lacrime,

sui pali fioriscono le rose

ma solo per un portiere come lei!

Il ragno nero, il gigante con la sua divisa nera e il berretto sempre in testa, è morto quando io avevo quasi tre anni. Era il 20 maggio del 1990. Quell’uomo creò generazioni di portieri che vanno da Banks a Zoff a Sebastiano Rossi fino a Neuer. In qualche modo io ero consapevole della sua bravura. Anche se trovavo disgustoso che mangiasse bambini, mi sentivo anch’io rapito dal mio ruolo e lo svolgevo con tale precisione e tensione che spesso non riuscivo più a distinguere il campo di calcio dalla mia stanza o dal mio giardino. Ogni giorno mi allenavo solo nell’erba alta dietro casa. Tiravo calci ad un pallone che indirizzavo contro il muro e, nel rinculo, mi tuffavo per recuperarlo. Il muro era l’attaccante. Io dovevo difendere l’immenso giardino intorno a me. Forse non erano i confini della mia nazione, ma era come andare sulla luna e gridare al mondo la mia conquista. Dopo ogni parata. Era questo quello che provavo. E queste cose le posso analizzare solo ora, ora che conosco la sua storia e la sua bravura. Prima ero solo un’imitazione: adesso so che sono stato anch’io un piccolo Jašin.

La mattina della partenza di mio zio Santo e famiglia, andai di nascosto nella stanza di Vincenzo. Lui stava dormendo. Piano piano, poggiai sul comodino l’album Panini completato del campionato italiano 97-98. Era il mio modo di ringraziarlo, lasciandogli qualcosa di me. Forse già sapevo che sarebbe stata l’ultima volta che ci saremmo visti. Quando si svegliò non so cosa provò vedendo quel regalo. L’unica cosa certa e che venne di là, mi diede un abbraccio e in qualche modo mi disse: <<Grazie. Allora questo è tuo.>> Era l’album dei mondiali di quell’estate del 1998, completato, in tedesco. È stato un momento raro. Sarà stato lì che ho imparato cosa interpreta la parola emozione. Perché ogni volta che lo sfoglio provo quella sensazione speciale che sanno descrivere solo le lacrime.

Adesso il calcio non m’interessa più come una volta. È diventato prima Fantacalcio, poi scommesse sportive e infine un retaggio dei miei miriadi di ricordi. Il Parma di Buffon; Benarrivo, Apolloni, Thuram, Cannavaro; Sensini, Dino Baggio, Crippa, Blomqvist; Chiesa, Crespo: non lo eliminerà nessuno dal mio cuore. Neppure la sua bancarotta e questo sciocco calcio finanziario con debiti e corruzione e vergognosa speculazione e vanità sportiva. Questo calcio non è più poesia. Non mi sento partecipe. Neppure uno spettatore che non sa che fare la domenica pomeriggio. Ed è per questo che ritorno bambino. Che vedo i miei calcoli diventare rocce sopra i miei fianchi e affossare la mia passione che per quanto io tenti d’ignorare, è sempre latente in qualche anfratto dei miei spigolosi ed esili muscoli. Quando guardo verso l’ombra del mio passato rivedo il campetto sul lungomare dove si passavano intere estati a giocare. Pomeriggi spensierati sotto un sole incontrollabile. Diversi anni fa l’hanno distrutto per farci una piazzola con dei bar e dei paninari. Hanno costruito un lungomare pieno di palme e piste ciclabili che il mare, al primo temporale, s’è portato via. É stato più semplice demolire ogni cosa. Nessuno ci ha chiesto il permesso. A noi andava bene il niente che c’era prima – meglio del degrado di ora. A noi bastava quel rifugio. Sulle gradinate che dividevano il campo di calcetto da quello da tennis sono nati amori e cori passionali di tifosi di una o dell’altra squadra. Sul muretto di delimitazione ho ascoltato per la prima volta i Radiohead. In quel campo noi potevamo essere i campioni che tanto amavamo. Le nostre magliette da dieci mila lire, comprate da qualche marocchino, in qualche gita scolastica, ci spingevano verso aspettative e soddisfazioni sempre più solide. In quei campi tutti eravamo amici e rivali. Ci hanno scacciati come il fuoco ha allontanato i falchetti. Noi non siamo riusciti a tornare. In quel campetto ogni sera c’era la finale di Champions e bastava un pallone per creare due squadre e iniziare la partita. Facile trovare anche un adulto svogliato pronto ad arbitrare. Ecco già altri ragazzi sulle gradinate. Hanno formato la terza squadra. E le regole son sempre le stesse: sfideranno la squadra che perde.

Mancano pochi secondi alla fine della partita. Semifinale di torneo. Siamo 5 a 3 per noi. Basterebbe un goal per andare in finale. Hanno la palla gli avversari. Gli spalti sono pieni. In campo ci sono le due squadre più forti. Caso ha voluto che sia andata così. Tirano. Mi tuffo e la blocco. Mancheranno una quindicina di secondi al termine. Tutti i miei compagni sono in avanti. Improvvisamente cala un silenzio profondo su tutto il campo. Non so cosa fare. Sento il mio cuore pompare velocemente come quei treni che non si fermano mai nella nostra stazione: sfrecciano senza avvertire, rapidi come una folata di vento improvvisa. Il silenzio è rigido. I miei compagni sono tutti marcati o si muovono tentando di prendere alla sprovvista il difensore avversario. Caso ha voluto che sia andata così. Tiro. Di contro balzo. D’esterno destro. Sì: avevo visto che il portiere era un po’ troppo avanti dalla porta. Sì: avevo visto che non potevo fare altro. Tiro quella palla dicendo, forse tra me e me o gridando a squarciagola, con disperazione e liberazione: <<Ma vaffanculo!>>. E sì: quella palla è andata proprio lì. É entrata in rete e il silenzio si è rotto. E tutte le persone, pure le gradinate, mi sono cadute addosso. Vincemmo pure la finale. Il Falco col berretto aveva adempiuto al proprio dovere.