A tratti la vita è una mescolanza di cognomi e campi di concentramento e informazioni racchiuse dentro a documenti tristi. Ripercorre il proprio itinerario genealogico, alacre di buche e deviazioni, non è sempre liscio il racconto, può avvilupparsi in domande con domande, maggiori di quelle poste in partenza; le risposte solo un eco del passato. Penso che ognuno di noi vorrebbe aprire i propri armadi familiari per stabilire appieno il luogo e l’uomo, il primo, col quale fare i conti per la propria struttura molecolare e genetica. Forse non c’è niente da sapere, sicuramente i segreti hanno un posto ben definito nella vita di ogni essere vivente. Può capitare di tutto: uno zio che ha tentato di uccidere un diplomatico tedesco, nella Mosca di Stalin, deragliando definitivamente i rapporti amichevoli tra Germania e Unione Sovietica; un nonno finito a Mauthausen, sopravvissuto e rientrato a casa dopo quarant’anni essendosi fatto un’altra famiglia, un’altra sequenza biologica. Poi, può anche accadere di scoprire che ancora qualche parente è vivo, magari in America, è riprendere quel filo infinito che ci lega ad ogni nostro avo. Può anche succedere di sapere che troppi parenti sono stati sterminati in quel genocidio chiamato Olocausto, Shoah; che in Polonia ed in Ucraina ci sono stati troppi omicidi Rossi e che tutti erano sorvegliati e denunciabili e belli, belli carichi di malinconia e sogni. Può accadere di scoprire di essere ebrea, comprendere finalmente tutti quei piatti dai nomi così esotici e al contempo rigidi che nonna Rosa portava in tavola, in un silenzio assoluto – perché quasi sorda e tutta la famiglia, ora quasi una vergogna, da generazione, insegnava e proteggeva e costruiva scuole per sordomuti in tutta l’Europa dell’est. Infine, ma non proprio alla fine, solo per mettere un punto e virgola tra tanti eventi non lineari, si può venire a sapere che il tuo cognome non è Petrowskaja, ma Stern perché, il fratello di uno zio del nonno, entrando in clandestinità durante la rivoluzione, aveva assunto il nome di copertura Semen Petrovkij (nei paesi russofoni, le donne, alla fine del cognome, devono aggiungere una “a”) e, dopo la presa di potere dei bolscevichi, non era più tornato al suo vecchio cognome. Questa e altre sono le storie di Katja Petrowskaja, racchiuse nell’importante libro “Forse Esther”, tradotto da Ada Vigliani e pubblicato in Italia nella collana fabula di Adelphi. Dico importante perché non è solo un banale percorso a ritroso fin negli strati più profondi delle proprie origini: è la narrazione compatta e deliberata d’oltre settant’anni di convulse messe in scena nazionali (Polonia, Ucraina, Germania) per mascherare un passato doloroso e, per fare un esempio, ancora nascoste sotto le pietre di Kalisz che percorrono tutto il paese, fatte con le lapidi degli ebrei – messe al contrario così da non essere visibili e riconosciute. “Siamo cresciuti con venti milioni di morti, poi è risultato che furono molti di più. I numeri ci hanno mal abituati e resi guasti, l’immagine della violenza ha abusato di noi; quando si cominciano a capire questi numeri, si finisce per accettare la violenza. Sono colta da un senso di oppressione, e non so perché tutto questo abbia un suono così normale, quasi noioso”. In un percorso ricco di ansia e lucida dimensione linguistica, Katja espone tutto il suo rancore verso le vicende di un passato, da lei, abbandonato e non percepito quando tutto poteva essere più chiaro. Tutto viene messo nelle mani della madre, internet e Google Maps, anche il percorso di marcia nei mostruosi campi di sterminio. Appoggiandosi ai miti Greci, da Sisifo ad Oreste, perché da bambina accompagnava la lettura del libro “Leggende e miti dell’antica Grecia” disegnando con la matita una galleria di eroi e dei, ogni personaggio su un foglio a sé, che poi ogni parente o amico è un eroe a sé, appoggiandosi ai miti Greci descrive le varie fasi del suo viaggio e quello dei suoi nonni e zii. Ed è così che Erostrato, colui che mise fuoco al tempio di Artemide, per smania di gloria, diventa la parafrasi storiografica dello zio Judas Stern, colui che aveva sparato al diplomatico tedesco rompendo le buone relazione tra i due paesi dittatoriali. Ed è così che Sisifo diviene la metafora del ricordo, del continuo accadere, nella fatica del ricostruire, ascoltare, rievocare, su e giù, in eterno. Ed è sempre un piacere sapere che un poeta, con una sua poesia, dia e da, nuovamente, onore ad un popolo e alla sua catastrofe: “Ma nel 1961 davanti a Babij Jar cedette un terrapieno, una colata di fango investì la città e uccise millecinquecento persone. Anche questo evento fu taciuto. Riportarono il fango a Babij Jar e ne riempirono la forra. (Il 29 settembre del 1941, in questa piazza di Kiev, vennero riuniti e uccisi 33.771 civili ebrei. Nei due anni seguenti circa 90.000 ucraini, zingari e comunisti furono massacrati nel fossato. nds) Pochi mesi dopo l’accaduto la ‘Literaturnataja Gazeta’ pubblicò una poesia di Evgenij Evtušenko: <<Su Babij Jar, nessun monumento./ Un ripido pendìo – un’unica lapide non toccata da scalpello./ Ho paura./ Sono vecchio, oggi,/ vecchio come il popolo ebraico./ E adesso, credo, sono/ un ebreo. […] Ogni vecchio ucciso qui/ io. Ogni bambino ucciso qui/ io.>>. La gente si telefonava, mi raccontò mia madre, piangevamo per la gioia che qualcuno parlasse infine apertamente di quella sciagura.” In ogni epoca avvengono miracoli e meccanismi tali da sfuggire alla ragion pura e sana, cerebralmente parlando. Confidiamo sempre in qualcun altro per riassumere e spurgare i nostri peccati. Ma ci sono sempre cose ed eventi e pensieri che non possono mai esser dimenticati perché partecipi di una Storia comune e, anche se in qualche modo occultata dal tempo, da generazioni sempre più annoiate e isteriche, comunque parte del nostro gruppo sanguigno e della nostra cultura. Dirimersi dal nero è solo un passaggio, un po’ come dire non siamo soli. Ad ognuno il suo Sisifo; ad ognuno il suo dannato vivere – che ci piaccia oppure no, almeno, divertendosi e combattendo il male; un po’ come Batman, forse meglio di Batman.
“Forse la natura aveva incluso da un pezzo nel suo sistema circolatorio tutti i generi di violenza, i passi pesanti degli eserciti in marcia, i ricchi villaggi che morivano di fame, i crateri scavati dalle granate, le fosse e i morti insepolti, e là dove cerchiamo la pace, già da tempo aveva avuto luogo la nostra metamorfosi, a ogni respiro e a ogni morso della mela entriamo a farne parte, parte dell’avvelenamento e del peccato di cui non siamo noi i responsabili, e nemmeno l’ignoranza delle leggi di natura può affrancarci da tale peccato. Se Caino ha ucciso Abele e Abele non ha avuto figli, chi siamo noi allora?”