Lasciamo perdere il senso di comunità. Tra i ricordi che puoi seppellire non c’è l’infanzia, né l’adolescenza. Niente come tornare in un luogo rimasto immutato ci fa scoprire quanto siamo cambiati (N. Mandela). Ma quel rimanere immutato è un dato affettivo, poco vicino alla verità. La realtà è un’altra. La gente del luogo ha una Viverna che staziona sulle loro teste, sente il peso del pericolo e lo ignora per non doverlo affrontare perché è già accaduto – le ossa spappolate, il cuore tradito, le promesse nella prateria dei cadaveri, il senso della vita tra gli ulivi bruciati e un lungomare squarciato. La gente del luogo non perisce sotto i colpi della noia: forse la noia nasce proprio in quel posto e si propaga nel resto del mondo. Così come la cocaina o i pizzini. Ma questo non c’entra niente col sole e le spadare sul mare caldo e immobile. Se c’è un posto dove i sintomi dell’apocalisse si sentono e si respirano, quel posto è qui. Però nessuno può dirlo. Nessuno può confondere l’ospitalità esagerata con un principio di perdita e vergogna. Nessuno deve parlare male anche se il pranzo fa schifo e la spazzatura galleggia dolcemente sulle onde. Sono le dodici, l’ora di punta. Il caldo stermina i desideri dei campioni. Sul bagnasciuga i petti cuociono e c’è già chi si prepara per l’ultimo bagno prima che la mamma sbraiti qualcosa. Non devi andare lontano per restare bambino. Non crescere è un lusso o un tormento? Bisognerebbe chiederlo a Ciccio che ha avuto una madre demente come lui che lo pestava e un padre alcolizzato che faceva altrettanto. Gli sono morti entrambi. Ora è solo. Solo in un concerto di gente che non lo vede e lo deride. Ma questo non c’entra niente col sole e il profumo della ginestra sui cigli delle strade. Andando oltre puoi vedere le montagne trafiggere il cielo. Ti aspetti Dio una volta terminata la scalata. Sei fortunato se riesci a comprendere cosa sei stato fino a quel momento e cosa diventerai una volta ucciso il cinghiale e la sua prole. Non devi andare molto lontano per sentire la puzza del morto. Ospedali, foreste, sotto casa. Fin quando il ponte non fu costruito, si passava nella fiumara per evitare di passare sulla sfrenata statale. Le bici sulle spalle, un piccolo ponte di trave di legno ed eccoci dall’altra parte, dritti verso la dimora del maresciallo per indicare nome e cognome e il periodo di permanenza. Le armi le potevi scegliere in un magazzino sul retro del palazzo. Io prendevo sempre un libro sugli odonati. Perché ero un ladro e il mio solo scopo era tentare di fuggire da quel posto. Perché lo amavo e ogni sua scortesia mi feriva. Allora studiavo le libellule. Restavo fermo sul ciglio della fiumara, appostato tra i canneti. Volavo in simbiosi con gli insetti. Brillavo anch’io tra l’azzurro metallico e il giallo perfettino. Schizzavo veloce da un punto all’altro. Poi costruirono il ponte e non potei più esimermi dalle responsabilità che un combattente deve avere nel rispetto della civiltà nella quale si trova. Mi dissero che avrebbero ucciso tutte le libellule della città. Il motivo non esisteva; alcuni motivi venivano presi unicamente per deviare l’attenzione, o per passarsi il tempo. Quindi mi feci avanti dando la mia disponibilità a tale azione. Quindi impugnai le armi. Dal magazzino sul retro del palazzo presi un retino. Le catturai tutte. Le misi in centinaia di ceste e preparai il mio suicidio. Posizionai tutte le ceste nei posti più sensibili del paese, cominciando dalla casa del maresciallo. Le aprii e fu uno spettacolo immenso. Tra urla e stupore, come se nel paese fossero piombate le stelle. I bambini erano felici. Io cercai rifugio nel buio dei sentimenti dei bambini. Ma questo non c’entra niente col sole e l’avocado di mia madre nel giardino di casa.
Il deserto si avvolge nei reticolati dell’anima e della terra. Il fuoco arde nei cuori impoveriti e nei campi dei perdenti. Le montagne piangono cenere. C’è polvere ovunque. D’inverno l’ombra imprigiona il sorriso nel vuoto di una piazza arresa alla ruggine. Se non ci fossero i santi e la Madonna, la vita sarebbe un andirivieni di rancori e serrande divelte. O forse i fiori riempirebbero le tasche? E se la vita si trovasse noi contorni del luogo e non nella gente che lo possiede? E se tutto ciò fosse vero, esisterebbe l’uomo o il battito cardiaco suonerebbe solo nelle cose che definiscono il luogo? Non c’è dialogo per chi non sa ascoltare. Ci arrendiamo molto volentieri. Possediamo solo materiali che possono renderci stupidi. Inventiamo mostri per accontentarci: i Palestinesi, gli sbarchi, le lumache delle Poste. Sapendo che i veri mostri siamo noi quando andiamo a dormire lasciando che nella notte banditi e briganti cavalchino sulla terra pretendendo il rispetto della luna, il moto delle maree, la civetta con in grembo le regole e la giustizia. Ma questo non c’entra niente con il sole e l’infanzia in un campetto di calcio. I ricordi rendono i desideri criminali. Hai necessità di evadere e rendere possibile l’alternativa. La comunità è un patto di sangue e di soldi. La comunità s’instaura con un cognome e qualche porto d’armi. Il saluto è educazione fino a quando il voto è accordato. L’uccisione del maiale è il battesimo; la comunità vive di rituali e certezze. Non puoi pensare di far parte di un sistema fatto di omissioni e precetti se non capisci il dialetto e gli svincoli da prendere. Sì: il mare è mastodontico e sensuale, l’Aspromonte vibra di passioni e scommesse di rinascita. Ma puoi dirlo a te stesso e al turista. La verità è che la merda ci ha travolti, ci ha fatto innamorare; ci ha acquietati e reso sterili. Adesso un caldo soffocante asciuga i rancori sepolti dentro il materasso. Potranno farti di tutto e i gufi resteranno sempre immacolati tra le giunture degl’alberi spenti. I pipistrelli saetteranno immuni al vomito scolpito fuori dai bar. Ci saranno altre guance tagliate e altre tombe da scavare. Eppure l’amore, l’amore è una maledizione. Non si esce vivi. In nessun modo. Darai il sangue, per il suo seno e per le sue natiche imperiali. Per la sua storia eterna. Per l’intelligenza sepolta nelle cicatrici e nella lotta. Sempre l’inizio e l’esempio di ogni lotta. Sempre ditteri svolazzanti che non sanno uscire dalle finestre. Sempre felici. Sempre ‘na lagna.
Benvenuti nella città delle mosche.
Il libro sarà disponibile dal 5 agosto.
Si può già prenotare e acquistare scrivendo direttamente all’autore (benny.nonasky@gmail.com),
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